Giugno 15, 2025

L’inflazione scende, ma i prezzi restano alti: chi ci guadagna davvero?

L’inflazione scende, ma i prezzi restano alti: chi ci guadagna davvero?

Inflazione in calo, ma il carrello resta caro

I dati più recenti dell’ISTAT e della BCE lo confermano: l’inflazione sta calando, dopo il picco raggiunto nel biennio 2022-2023. Eppure, chi va a fare la spesa o paga le bollette non se ne accorge affatto. I prezzi degli alimentari, dei trasporti, delle utenze domestiche e dei servizi sembrano inchiodati a livelli record, e per molte famiglie italiane il costo della vita resta insostenibile.

Nel 2025 l’inflazione media annua in Italia si è ridotta sotto il 2,5%, rientrando nei parametri desiderati dalla BCE. Tuttavia, prodotti di uso quotidiano come pasta, pane, latte, frutta e verdura continuano a costare tra il 20% e il 40% in più rispetto a tre anni fa. E, fatto ancora più sconcertante, non stanno tornando indietro.

Questo paradosso alimenta sfrustrazione e diffidenza verso istituzioni e media, alimentando la convinzione che “qualcuno ci stia guadagnando sulla pelle dei consumatori”. Ma chi sono questi “qualcuno”? E perché i prezzi non tornano a livelli più accessibili?

Perché la percezione dei consumatori è diversa dai dati

Il motivo principale di questa discrepanza sta nel modo in cui viene misurata l’inflazione. Gli indici ufficiali fotografano la variazione media dei prezzi su un paniere di beni e servizi. Ma il consumatore medio non fa la spesa con un paniere teorico: vive di beni essenziali, affronta rincari continui su spese ricorrenti, e subisce aumenti localizzati che non emergono nei dati aggregati.

Inoltre, molti aumenti dei prezzi introdotti negli anni dell’inflazione alta non sono mai stati rimossi. Le aziende spesso hanno alzato i listini con la scusa dell’aumento dei costi energetici o delle materie prime, ma li hanno mantenuti invariati anche dopo che quei costi sono scesi.

Il risultato è una sensazione diffusa di ingiustizia economica: i salari non sono aumentati al ritmo dei prezzi, il potere d’acquisto è diminuito, e l’inflazione percepita è molto più alta di quella reale.

Come si misura l’inflazione e cosa non ci dice

L’indice dei prezzi al consumo: vantaggi e limiti

L’indice ufficiale usato per misurare l’inflazione in Italia è l’IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato), calcolato secondo le direttive europee. Include centinaia di prodotti e servizi, ponderati in base ai consumi medi delle famiglie italiane. Questo indice serve per decisioni economiche e politiche: dalla BCE per la politica monetaria, fino alla rivalutazione di pensioni e salari.

Ma l’IPCA ha limiti evidenti: rappresenta una media, non fotografa le specificità territoriali, non cattura le differenze di reddito e non distingue tra beni essenziali e superflui. Ad esempio, se cala il prezzo dei televisori ma aumenta quello del pane, l’indice può rimanere stabile… ma il consumatore medio avrà più difficoltà a fare la spesa.

Altro limite: molti consumi non sono facilmente monitorabili, oppure si modificano in risposta al caro vita (come rinunciare a viaggi o cure private). Questo falsifica i dati reali e peggiora la comprensione pubblica del fenomeno.

La differenza tra inflazione reale e percepita

L’inflazione reale è quella misurata dai numeri. Quella percepita è quella che senti ogni volta che apri il portafoglio. E oggi, in Italia, la forbice tra queste due è enorme. Un’indagine condotta da Altroconsumo nel 2024 ha rilevato che il 70% degli italiani crede che l’inflazione sia ancora sopra il 10%, nonostante i dati ufficiali dicano il contrario.

Questo scollamento ha conseguenze gravi: sfiducia verso le istituzioni, calo dei consumi, stagnazione economica, e una crescente sensazione di instabilità. Anche perché, mentre l’inflazione scende, i salari reali non recuperano, e le famiglie restano intrappolate in un ciclo di rinunce, risparmi forzati e insicurezza.

I settori dove i prezzi non scendono mai

Alimentari, affitti, trasporti e servizi essenziali

In teoria, in un’economia sana, dopo un picco inflattivo dovrebbe seguire una fase di normalizzazione dei prezzi. Ma in pratica, alcuni settori sembrano completamente immuni a questo meccanismo. I consumatori italiani lo sanno bene: ci sono spese che non tornano mai indietro.

Tra queste, gli alimentari sono al primo posto. Secondo i dati di Coldiretti e ISTAT, nel 2025 il prezzo medio dei beni alimentari è ancora del 28% più alto rispetto al 2021. E i rincari riguardano soprattutto prodotti base: pane, pasta, latte, frutta, verdura, carne. Il motivo? Costi delle filiere ancora alti, ma anche scarsa trasparenza tra produzione, distribuzione e vendita.

Anche gli affitti sono aumentati drasticamente, specie nelle grandi città. A Milano, Roma, Bologna, il canone medio per un bilocale è cresciuto del 20-30% in due anni, complice la riduzione dell’offerta (trasformata in locazioni brevi) e la pressione della domanda giovanile.

Nel settore trasporti, il costo dei carburanti resta sopra la soglia psicologica dei 1,80€/l per la benzina, e i biglietti di treni, metro, voli e autobus continuano a salire. Persino i servizi essenziali, come parrucchieri, dentisti, baby sitter e idraulici, hanno rivisto al rialzo i prezzi senza più tornare indietro.

Il ruolo delle filiere e dei costi fissi

Un fattore chiave che spiega la tenuta dei prezzi è la struttura delle filiere. Molte aziende hanno contratti a lungo termine, costi fissi elevati e margini da difendere. Anche quando calano le materie prime, gli aggiustamenti lungo la catena sono lenti e selettivi.

Inoltre, molte imprese hanno utilizzato la fase di alta inflazione per ricalibrare i propri listini verso l’alto, mantenendo poi i nuovi prezzi come “base di partenza”. Un meccanismo che genera profitti crescenti senza una reale giustificazione nei costi.

In assenza di regole chiare o controlli sui margini, il mercato si autoregola… spesso a svantaggio dei consumatori.

Chi ci guadagna dal mantenimento dei prezzi alti

Aziende, grande distribuzione e multinazionali

Se i consumatori soffrono, qualcuno deve pur guadagnarci. E infatti, molte aziende, soprattutto multinazionali e colossi della distribuzione, hanno registrato utili record proprio negli anni della crisi inflattiva.

Secondo uno studio di Mediobanca, nel biennio 2022-2024 i margini operativi netti di molte aziende nel settore alimentare, energetico e farmaceutico sono cresciuti fino al 30%, nonostante l’inflazione. Alcuni nomi della GDO (grande distribuzione organizzata) hanno aumentato i prezzi di scaffale ben oltre la crescita dei costi, approfittando della confusione e della paura dei consumatori.

Il meccanismo è semplice: in un contesto dove tutto sembra aumentare, è più facile ritoccare i listini senza troppi controlli. E così si crea una nuova “normalità” più profittevole, mantenuta anche quando la pressione sui costi si riduce.

Il fenomeno della “greedflation”

Questo comportamento ha un nome: “greedflation”, ovvero inflazione da avidità. È il fenomeno per cui alcune imprese approfittano del contesto inflazionistico per aumentare i prezzi ben oltre i propri costi reali, accrescendo i margini senza reali giustificazioni.

Se ne parla molto nei Paesi anglosassoni, e anche la BCE ha ammesso che una parte dell’inflazione europea recente è stata trainata da aumenti dei profitti, non dei costi. In pratica, l’inflazione non è più solo una conseguenza delle guerre o dell’energia, ma anche una scelta commerciale.

Il rischio è che questa dinamica, se non controllata, alimenterà sfiducia, disuguaglianza e stagnazione, allontanando sempre di più cittadini e consumatori dai benefici di una vera ripresa.

Cosa può fare lo Stato per tutelare i consumatori

Controllo dei margini, trasparenza e politiche anti-speculative

Per fronteggiare una situazione in cui i prezzi restano alti anche a inflazione calante, lo Stato ha alcuni strumenti a disposizione. Il primo è il controllo dei margini commerciali, per garantire che gli aumenti di prezzo siano giustificati da reali costi operativi e non da politiche opportunistiche.

Nel 2023 e 2024, il governo italiano ha promosso campagne come il “carrello tricolore”, con accordi tra esecutivo e catene della grande distribuzione per calmierare i prezzi di beni primari. Tuttavia, senza strumenti coercitivi o un’autorità di monitoraggio efficace, queste iniziative restano simboliche.

Serve maggiore trasparenza sui prezzi lungo le filiere, dalle materie prime al consumatore finale. E soprattutto, serve una politica antitrust più aggressiva, per impedire che pochi soggetti dominino interi settori e impongano dinamiche monopolistiche.

Anche il ruolo delle autorità di garanzia, come l’AGCM, dovrebbe essere rafforzato con indagini sistematiche sui rincari anomali e campagne informative per i cittadini.

Educazione al consumo e nuovi modelli economici

A lungo termine, la battaglia contro il “caro vita permanente” passa anche da una nuova cultura del consumo. Insegnare ai cittadini a leggere un’etichetta, a confrontare i prezzi, a riconoscere i veri aumenti da quelli mascherati, significa ridare potere contrattuale ai consumatori.

Serve un investimento serio in educazione economica, a scuola e nella società. I cittadini devono sapere cosa succede al loro denaro, come funziona il mercato e perché alcuni prezzi non scendono.

Inoltre, possono essere incentivati modelli alternativi di economia locale e circolare, come i gruppi d’acquisto solidale (GAS), i mercati diretti dal produttore al consumatore, le cooperative e i negozi etici. Queste realtà dimostrano che un altro modo di consumare è possibile, meno soggetto alle logiche speculative e più vicino alle comunità.

Conclusione: prezzi fermi, sfiducia in crescita

L’inflazione sta tecnicamente calando, ma la realtà del carrello, delle bollette e degli affitti racconta un’altra storia. I prezzi non tornano giù, e i cittadini sentono di essere soli davanti a un sistema che protegge più i margini aziendali che il potere d’acquisto delle famiglie.

È il momento di riequilibrare le forze tra chi vende e chi compra, tra chi gestisce i costi e chi li subisce. Serve trasparenza, educazione e un controllo vero sul funzionamento del mercato.

Perché in un’economia giusta, i benefici della ripresa devono arrivare anche alla cassa del supermercato, non solo ai bilanci delle multinazionali.

FAQ

1. Perché i prezzi non calano anche se l’inflazione scende?

Perché molte aziende mantengono i prezzi aumentati, anche se i costi sono tornati a livelli normali, sfruttando l’inerzia del mercato e la scarsa concorrenza.

2. Cosa significa “greedflation”?

È l’inflazione generata dall’avidità, ovvero quando le imprese aumentano i prezzi per massimizzare i profitti, non per reali aumenti di costo.

3. Quali settori sono i più colpiti dal caro vita permanente?

Alimentari, affitti, trasporti, servizi di base (sanità privata, scuola, bollette, manutenzioni) sono tra quelli dove i prezzi restano alti.

4. Esistono strumenti per difendersi?

Sì: educazione al consumo, confronto tra offerte, utilizzo di gruppi d’acquisto, scelta di prodotti locali, e attenzione ai contratti di fornitura.

5. Cosa può fare il governo per aiutare?

Monitorare i margini, incentivare trasparenza, favorire l’educazione finanziaria e intervenire in caso di abusi da parte di aziende dominanti.